Letteratura

Stendhal, le invenzioni dell’“adorabile bugiardo”

Un esempio di “beylismo”: la “realtà” rimodellata e ricostruita dal grande scrittore francese, tra sentimento e memoria

  • 9 maggio, 14:04
  • 10 maggio, 09:39
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Di: Mattia Mantovani

Vladimir Nabokov diceva giustamente che la parola “realtà”, nell’epoca delle macchine e nella civiltà dell’informazione, può essere scritta e intesa soltanto tra virgolette, come un concetto molto vago ed effuso che allude a qualcosa di non meglio definito. Perché la “realtà” sembra ormai il prodotto meramente additivo di tante realtà parziali, che a loro volta hanno contorni estremamente vaghi e sfumano nell’irrealtà.

Il progenitore di questa percezione, che sta alla base della coscienza moderna, si situa in un periodo nel quale l’epoca delle macchine era appena agli esordi e della civiltà dell’informazione esistevano soltanto alcuni vaghi accenni. «Scrivo per le “anime sensibili” e sarò famoso intorno al 1900, quando mi leggeranno pochi fortunati» (i quasi leggendari happy few), diceva di sé, e aveva perfettamente ragione, perché la sua sensibilità era in effetti troppo avanzata e per così dire troppo novecentesca per essere compresa e apprezzata dai suoi contemporanei. E’ questo il motivo per cui uno dei suoi più attenti e affezionati lettori, Leonardo Sciascia, lo aveva definito “semplicemente adorabile”, intendendo per “adorabile” il suo straordinario e davvero impareggiabile talento di reinventare la realtà (o presunta tale).

L’adorabile “bugiardo” e reinventore della realtà, nato a Grenoble il 23 gennaio 1783 e morto a Parigi il 23 marzo 1842, risponde al nome di Henri Beyle alias Stendhal (dalla località tedesca di Stendal, in Sassonia, patria dell’amatissimo Winckelmann, ma con la civettuola aggiunta di una ”h”), e questo suo prodigioso talento fa della sua opera letteraria un patrimonio umano e culturale imprescindibile. Tanto più imprescindibile, se si pensa che l’opera letteraria dello scrittore Stendhal è in sostanza un’unica reinvenzione della vicenda umana della persona Henri Beyle, non solo nei grandi romanzi come La Certosa di Parma (dove tutto è completamente reinventato) e Il Rosso e il Nero, non solo nella reinvenzione scopertamente autobiografica dei Ricordi di egotismo e della Vita di Henry Brulard, ma anche e forse soprattutto nelle innumerevoli pagine di diario, negli scritti solo apparentemente minori quali ad esempio le biografie di Napoleone, Mozart, Haydn e Metastasio e in quella canagliesca e insieme originalissima scopiazzatura che rimane la Storia della pittura in Italia.

Non si esagera, insomma, se si dice che l’espressione “Stendhal”, oltre che un grandissimo scrittore, definisce una vera e propria visione del mondo (il cosiddetto “beylismo” o “egotismo”) e un approccio particolarissimo alla “realtà”, intesa come qualcosa che viene percepito dai sensi, registrato e codificato dall’intelletto e dalla ragione, e infine ricreato con entusiasmo dal sentimento e dalla memoria. Come se la realtà, esattamente come l’amore teorizzato (e ovviamente ricreato) da Beyle nello straordinario racconto-saggio De l’Amour, fosse soggetta a differenti stadi di cristallizzazione. Ci sarebbero quindi una “realtà-passione”, una “realtà-capriccio”, una “realtà fisica” e da ultimo una “realtà di vanità”.

La reinvenzione della realtà da parte di Stendhal -che non ha risparmiato nemmeno la Svizzera, in particolare l’odiamata Ginevra, totalmente ricreata nelle Memorie di un turista- ha coinvolto in particolare la zona di Como e il suo territorio, col quale Henri Beyle intrattenne un rapporto privilegiato fin dal primo soggiorno in Italia nel 1800. Como e il suo lago compaiono nella parte iniziale de La Certosa di Parma, soprattutto nel secondo capitolo, in molte pagine dei diari e della corrispondenza, in alcuni capitoli di Roma, Napoli e Firenze, nel saggio L’Italia nel 1818 e nella Piccola guida per un viaggio in Italia, scritta per l’amico Romain Colomb nel 1828, che presenta anche un’appendice -a dire il vero piuttosto sbrigativa e ingenerosa- dedicata alla zona del Sopraceneri (i cocchieri di Magadino vengono definiti autentici ladri e malfattori, mentre Bellinzona viene derubricata quale “buco infame”).

Si capisce insomma perché il “milanese” Henri/Arrigo Beyle, durante il soggiorno del 1817 sulle rive dell’Arno, sconcertato dalla parlata dei fiorentini e dal loro «superbo disdegno verso tutto ciò che non è “toscana favella”», diceva a tutti di essere di Como («mi credono senza esitazione») e parlava con una forte cadenza milanese, troncando volutamente le desinenze: «La caratteristica della parlata milanese consiste nel troncare la coda a tutte le parole italiane», scriverà circa un decennio dopo nella Piccola guida.

L’episodio più eclatante (e per taluni versi disorientante) di reinvenzione della realtà applicata a Como e il suo territorio è probabilmente quello raccontato nella Vita di Rossini, pubblicata nel 1823, più nello specifico nel capitolo nono, dedicato ad Aureliano in Palmira. Stendhal dovrebbe e vorrebbe parlare dell’opera in questione, ma fin dalle prime righe confessa che non dirà molto per la semplice ragione che non l’ha mai vista. Tuttavia per Stendhal ogni pretesto è più che sufficiente per reinventare e rimodellare la realtà. Parla infatti di un’altra opera, Demetrio e Polibio, e dice di averla vista una sola volta, nel 1814.

Lo spunto, tipico per Stendhal, si situa rigorosamente nella cornice del demi-monde. Una calda sera di giugno, nel giardino di una dimora signorile di Brescia, Stendhal ascolta una «dama della buona società che cantava a mezza voce un’aria che sembrò piacevole». L’aria in questione è Questo cor ti giura amore del Demetrio e Polibio, che proprio il giorno seguente va in scena a Como. «Perché non andate a Como?», dice la padrona di casa. E tutti gli ospiti, Stendhal compreso, non si sa se per sottrarsi alla noia o per autentica convinzione, accettano immediatamente l’invito. Siamo ancora nella realtà oppure ci troviamo già nella sua reinvenzione? Difficile fissare un confine. Come dicono i due versi della quarta Satira dell’Ariosto, posti in esergo a La Certosa di Parma: «Già mi fur dolci inviti a empir le carte / i luoghi ameni». Non a caso, Ariosto e Rossini hanno esercitato un influsso decisivo sul metodo e sullo stile di Stendhal.

Il viaggio, ad ogni modo, si compie «sulla strada di Como, che passa per Bergamo». E qui Stendhal comincia scopertamente con l’opera di reinvenzione, quella stessa reinvenzione che in un celeberrimo passo de La Certosa di Parma lo porterà a dire che la zona del centro lago (Cadenabbia, Villa Carlotta, la Tremezzina e Bellagio), insieme al golfo di Napoli, è il posto più bello del mondo. Reinvenzione, nello specifico, significa liberazione dalla “mania dei fatti comprovati” (l’espressione è di Stendhal), esagerazione, realtà rivista e rimodellata nella proiezione immaginativa, negli estri momentanei, nelle fughe prospettiche del sentimento e dei moti del cuore, in una pura e vibrante esteriorità non ancora intaccata dalla letargia della consapevolezza e dal freddo raziocinio. Un altro grande reinventore di realtà, Giacomo Leopardi, li ha definiti “stati d’affezione”, ma si possono circoscrivere anche a partire dalla pittura del diletto e “divino” Correggio quale arte della visione, che Stendhal ha trasferito nella musicalità della scrittura, soprattutto in certi “larghi” de La Certosa di Parma, a partire dal già ricordato secondo capitolo ambientato sul Lago di Como: «Dipingere come la lontananza anche le figure in primo piano».

Realtà affettiva, insomma, ma non meno reale della cosiddetta e presunta realtà effettiva. Scrive Stendhal: «La strada di Como si snoda lungo le più belle colline che vi siano forse in Europa. L’alternarsi di laghi e di montagne ricoperte di enormi castagni, di aranci e di ulivi che va da Bassano a Domodossola è forse il più bello spettacolo naturale che esista al mondo». La piccola ritrattazione che segue non fa altro che rimarcare la reinvenzione, col gran bugiardo che assume un tono decisamente canaille: «Poiché nessun viaggiatore ha mai esaltato questo paesaggio, esso è rimasto pressoché sconosciuto, ma non sarò io a parlarne, per tema di sembrare esagerato. Temo già fin troppo che mi si rivolga questo rimprovero per tutti i bellissimi effetti che attribuisco alla musica».

La descrizione dell’arrivo e della giornata trascorsa a Como  sembra improntata al realismo. Qui, all’apparenza, non c’è alcuna realtà da reinventare, e lo stesso discorso vale per la serata a teatro: «Arrivammo a Como alle nove del mattino. Il sole già scottava. Furono subito preparate barche a vela per quelli di noi che volevano fare il bagno, e finalmente, alle otto di sera, ci ritrovammo freschi e riposati nella nuova sala di Como, aperta al pubblico quel giorno per la prima volta. C’era una folla immensa. La gente era qui convenuta dai monti di Brianza, da Varese, da Bellagio, da Lecco, da Chiavenna, dalla Tremezzina, da tutte le rive del lago a trenta miglia di distanza».

Anche la descrizione del teatro è precisa e realistica: «L’architettura è splendida e semplicissima. Un porticato enorme, sorretto da sei grandi colonne corinzie con capitelli di bronzo, offre un comodo riparo sotto il quale la gente che viene a teatro può scendere in carrozza: si ottiene così l’utile, tanto necessario in architettura quanto il bello. Questo porticato si trova in una bella piazzetta dietro alla magnifica cattedrale in stile gotico temperato».

Come recita la celebre frase del Pinocchio di Giorgio Manganelli? «Tutto documentato. Tutto arbitrario». In realtà, anche se l’espressione è più che mai fuori luogo, queste righe non corrispondono ad alcuna realtà reale. Nel giugno 1814, come testimoniano i suoi diari, Stendhal si trovava a Parigi. E’ vero che era stato a Como ad assistere al Demetrio e Polibio, ma era il 18 settembre 1813. E inoltre non si trattava dell’inaugurazione del Teatro Sociale, che era già stato inaugurato il 28 agosto con l’Adriano in Siria su libretto del Metastasio. Eppure questa sua invenzione/reinvenzione possiede una connotazione reale sconosciuta a tante cronache basate sui “fatti comprovati”. Un paradosso? Può darsi, ma un paradosso ricco di implicazioni.

Uno dei suoi primi ammiratori, Honoré de Balzac, che fu tra i pochi a coglierne fin da subito -anche se con talune riserve- l’inarrivabile grandezza, diceva che si vive due volte: la prima nella realtà, la seconda nel ricordo. Per Stendhal, le due dimensioni coincidono, di modo che si vive veramente una sola volta: nella reinvenzione, appunto, nel differimento della realtà in una sfera che rende la realtà stessa più “reale” e “realmente” vissuta.

I grandi scettici, come ad esempio Max Frisch, che più di un secolo dopo diranno che la realtà (e quindi la verità) non si può descrivere ma solo inventare nel senso di “ritrovare”, non faranno che confermare e avvalorare questa sua geniale, impareggiabile e assolutamente rivoluzionaria intuizione. Ha scritto Carlo Levi nel 1960, nella prefazione all’edizione italiana di Roma, Napoli e Firenze: «Stendhal ha capito, forse per primo, il valore poetico del casuale, del particolare, dell’interrotto e parziale e istantaneo, nella contemporanea totalità dell’immagine. Ci voleva più di un secolo perché questo diventasse un modo dell’esperienza comune, quello che ci accompagna se ci immergiamo davvero nella realtà. Perché quando ci si immerge nella “realtà”, il suo “paesaggio” ci appare vario e ricchissimo, illuminato soltanto dai lampi di un temporale invisibile, che si accendono, ad ogni momento, da tutte le parti, in una successione continua di istanti immaginari e reali». Circa un ventennio dopo gli farà eco Giovanni Arpino, con una considerazione che sviscera il senso più profondo della grandezza di Stendhal: «Il mondo non dovrebbe mai essere visto, solo raccontato. Soltanto allora acquisterebbe una sua credibilità». Sono stati loro i primi happy few e le prime âmes sensibles, che hanno ereditato e idealmente inoltrato la semplicissima quanto vertiginosa domanda che Stendhal alias Henri Beyle alias Henry Brulard si pone nelle prime pagine della Vita di Henry Brulard (o forse di Henri Beyle, o forse di Stendhal): «Che cosa sono stato? Che cosa sono? Dovessi rispondere, sarei in grande imbarazzo».

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