Società

«Non fare l’isterica»: alcune riflessioni sulla rabbia femminile

La rabbia è una delle sei emozioni di base dell’essere umano, eppure a metà della popolazione – quella femminile – non è concesso esprimerla. Ci insegnano a reprimerla, controllarla, nasconderla

  • 8 maggio, 08:02
Circo_Massimo_Roma

Manifestazione contro la violenza sulle donne, Circo Massimo, Roma, 2023

Di: Elena Panciera

«Quella donna in TV è isterica», dice Steven, quando torna con tre ciotole di gelato. Isterica. Odio questa parola. «Cosa?» «Le donne sono matte. Non è una novità, mamma. Sai quello che dicono, no? Che le donne hanno gli attacchi isterici.»[1] 

Questo è il dialogo tra Jean McClellan e suo figlio adolescente Steven. Jean è la protagonista e la voce narrante di Vox, romanzo distopico di Christina Dalcher (Editrice Nord, 2018) ambientato un mondo in cui le donne perdono rapidamente ogni diritto, e possono pronunciare solo cento parole al giorno. Vengono controllate da un contatore sul polso, che allo scattare della centunesima parola emette una scarica elettrica. È un mondo che assomiglia al nostro in modo inquietante.

«Smettila con queste crisi isteriche», lo ricordo come se fosse ieri che me lo dicevano in famiglia, quando da ragazzina avevo questi attacchi violenti di rabbia, in cui urlavo, piangevo, prendevo a pugni il muro. Essere apostrofate come “isterica”, “pazza”, “matta” in momenti di espressione di rabbia è successo a quasi tutte; ho fatto questa domanda alle persone che mi seguono su Instagram, quasi tutte di genere femminile, e nove su dieci hanno risposto affermativamente.

La rabbia è una delle sei emozioni fondamentali dell’essere umano (rimando agli studi, anche divulgativi, dello psicologo Paul Ekman, che hanno ispirato anche la serie tv Lie to Me). Eppure, per metà della popolazione occidentale, quella femminile, è un’emozione che è disdicevole provare, e ancora più disdicevole esprimere. Ed è spesso associata alla pazzia, conferma Soraya Chemaly, autrice di La rabbia ti fa bella (Harper Collins, 2018), che poi chiede: «Riuscite a ricordare una conversazione con una figura di autorità o di riferimento riguardo a come pensare la vostra rabbia o a come gestirla? Per le donne è probabile che la risposta sia no».

Questo però non significa che le donne, o le persone socializzate come donne (che la società percepisce come appartenenti al genere femminile) non provino rabbia, anzi: secondo uno studio di Beverly A. Kopper e Douglas L. Epperson, provano rabbia più spesso, più intensamente e più a lungo rispetto agli uomini (The Experience and Expression of Anger: Relationships with Gender, Gender Role Socialization, Depression, and Mental Health Functioning, in «Journal of Counseling Psychology» 43, n. 2, 1996, pp. 158-65). Semplicemente, è diverso il modo in cui la società risponde all’espressione della loro rabbia, come sono diversi i motivi per cui ne fanno esperienza. Per gli uomini, la rabbia è spesso associata a una sensazione di potere, mentre per le donne è collegata all’impotenza (Chemaly, La rabbia ti fa bella).

«È nell’infanzia che si impara di solito a vedere la rabbia come qualcosa di poco femminile, sgradevole ed egoista. A molte di noi è stato insegnato che la rabbia sarà un peso per gli altri e ci renderà fastidiose e antipatiche. Che allontanerà le persone che ci vogliono bene e scoraggerà quelle che vorremmo attrarre. Che ci deformerà il viso e ci imbruttirà. Questo vale anche per coloro che sono costrette a usare la rabbia per difendersi in situazioni tese o pericolose. Alle bambine non si insegna tanto a riconoscere o gestire la rabbia quanto a temerla, ignorarla, nasconderla e trasformarla», nota Chemaly.

Ora non mi capita più spesso di avere le reazioni violente che avevo da bambina e adolescente, quando sono arrabbiata. Più di trent’anni di controllo sociale, nella vita privata come in quella professionale, hanno raggiunto il loro scopo: ora sono diventata molto brava a reprimerla. A sfogarla eventualmente in privato, e a mantenere un contegno ineccepibile in pubblico. E questo è un problema che colpisce anche le donne ricche e famose: «Un uomo può reagire. Una donna può solo esagerare», ha dichiarato Taylor Swift in un’intervista del 2019 al «Sunday Morning».

Non riesco a contare le volte in cui mi è stato detto: «Datti una calmata. Avresti anche ragione, ma se lo dici in modo così aggressivo passi dalla parte del torto: non contesto i contenuti, ma i toni». Questo, in inglese, si chiama tone policing, letteralmente “controllo del tono”: è una delle tante pratiche che vengono attuate a livello sociale per controllare e reprimere la rabbia delle donne.

Ma continuo ad arrabbiarmi. Sempre per le stesse cose: le ingiustizie. I diritti negati. Le disparità. Quando mio marito ha letto La rabbia ti fa bella, mi ha detto: «Ora lo capisco perché sei sempre arrabbiata. Hai ragione, avete ragione a esserlo». In quasi quattrocento pagine, Chemaly parla di rabbia femminile. Di come ci arrabbiamo, del perché abbiamo mille motivi per farlo, e di come la nostra rabbia venga sistematicamente negata, invalidata, sminuita. Parla di violenza di genere, medicina di genere, divario di genere in termini di retribuzione, impegno di cura femminile non retribuito, carico mentale (su questo argomento consiglio il libro illustrato di Emma Clit Bastava chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano, Laterza, 2020)...

Lascio ancora la parola a Chemaly, che chiede provocatoriamente: «perché la società dovrebbe negare alle donne di tutte le età, dalla culla alla tomba, il diritto di provare, esprimere e usare la rabbia a proprio vantaggio e di essere rispettate nel farlo?».

La rabbia può essere dannosa e (auto)distruttiva, ma è anche un’emozione carica di speranza e proiettata verso il futuro. Ci si arrabbia quando si percepisce un’ingiustizia, una prevaricazione, una minaccia. La rabbia dimostra passione e coinvolgimento, è un’emozione potente e trasformativa. Non stupisce che la rabbia delle donne spaventi così tanto, soprattutto le frange più conservatrici.

«Una società che non rispetta la rabbia delle donne è una società che non rispetta le donne, né come esseri umani né come pensatrici, portatrici di conoscenza, partecipanti attive o cittadine», conclude Chemaly. Ma sta a noi trovare spazi e momenti per esprimerla in modo costruttivo, per costruire un mondo più equo e giusto per ogni persona. Per evitare di fare la fine di Jean McClellan in Vox, che pensa con rimpianto: «fare qualcosa – qualsiasi cosa – sarebbe già stato un buon punto di partenza».

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